LE NEWS

Ho scritto tanto anche di questo…


DELITTI POSTDATATI, da pag. 75 CAP XIII

Dallo scrigno della signora Luisa…

… “Vedi Mariuccia, Franz era intimamente convinto che la razza ebrea fosse il male del mondo, per lui non era una semplice dottrina politica. E anche qui da noi, sai, era già qualche anno che venivano applicate le leggi razziali. Anche se a me, fino a quel momento, gli ebrei erano sembrate persone normali. Insomma, vedendo la mia titubanza, lui iniziò a leggermi, durante i nostri incontri, dei testi che mi aprirono la mente, I Protocolli dei Saggi di Sion. In quelle ore, sdraiata sotto le coperte insieme a lui dopo aver fatto l’amore, al suono della sua voce, tutto iniziò a trovare la giusta spiegazione. Anche se negli anni successivi questi testi vennero tacciati come falsi, Franz ed io sapevamo che erano autentici. Vi si spiegava il piano operativo degli ebrei, i loro metodi per ottenere il dominio del mondo attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione e della finanza. Infine il loro obiettivo di sostituire l’ordine sociale tradizionale. E infatti già possedevano la maggior parte delle ricchezze, a scapito delle altre razze che ne avevano diritto”. A Mariuccia la pelle aveva iniziato a rabbrividire, mentre la vedeva sistemare una serie di fogli e con disinvoltura giustificare, anzi difendere, quella che era stata la vergogna dell’umanità. La signora aveva continuato e il suo sorriso, improvvisamente, era divenuto tremendamente cinico, “La Germania continuava a vincere le sue battaglie, e anche l’Italia ne beneficiava, ma c’era bisogno di riprendere ciò che di diritto apparteneva alla razza ariana, le loro immense ricchezze accumulate dai giudei con l’inganno e l’astuzia”.

Mariuccia, seppure pietrificata, si era alzata ugualmente quando l’anziana glielo aveva chiesto, “Vieni a vedere, cara, così forse mi capirai,” con le gambe tremanti e la mente offuscata, lei aveva sbirciato i fogli sottili e ingialliti come vecchia carta velina, che riportavano solo uno sterile elenco di nomi. Anche questi erano scritti su pagine che mostravano impresso, in alto a destra, lo stemma del fascio italiano. I nomi erano battuti a macchina uno sotto l’altro, “Vedi,” aveva continuato a spiegare la signora, “quando c’è una riga saltata è perché quei nomi appartenevano a un nucleo familiare”.

Infatti, alcuni nominativi sembravano isolati dall’elenco generale. Mariuccia aveva trovato finalmente il coraggio di chiedere: “A chi si riferiscono signora?”

“Quando Franz mi spiegò bene come stavano le cose e mi chiese di prendere questi documenti tra le carte di mio padre, io non esitai a darglieli. Del resto avevo libero accesso ai vecchi archivi del mio defunto papà. Gli elenchi, mia cara, presentano i nomi degli ebrei di Roma, alcuni li conoscevo personalmente, sai? Anche i loro bambini. Pensa che giravano già con la stella di David cucita sugli indumenti”.

E a Mariuccia era mancata l’aria, all’improvviso. Quella casa nella quale non vedeva l’ora di giungere il lunedì mattina e che nettava con amore, lasciandola sempre profumata di pulito, in quel momento le sembrava solo una trappola mortale. D’un tratto pareva che le pareti le cadessero addosso, come le accadeva nella cella della prigione. Senza riflettere si era addirittura attaccata al bicchiere d’acqua, dal quale aveva da poco bevuto la vecchia.

“Ti senti male cara?” le aveva domandato premurosa la signora.

“No, è stato un attimo,” aveva risposto lei pronta. L’anziana intanto, con grande disinvoltura aveva ripreso a parlare “Alcune di queste persone si rivolsero a me, quando agli ebrei venne assicurata la libertà in cambio del versamento di tutti i loro beni, nell’estate del ’43. Io li rassicurai che se avessero seguito le direttive del Terzo Reich a loro non sarebbe stato torto un capello, anche se ero certa che le cose non stessero in quel modo,” si era soffermata sorridendo e indicando un nome in particolare, al quale seguivano altri tre nominativi, una famiglia quindi. “Questa signora mi è rimasta impressa. Era vedova con tre figli e, per ringraziarmi dei consigli, mi volle regalare la fede d’oro del marito,” il suo sorriso era divenuto un ghigno, “di loro, cara, non seppi più nulla. Nell’ottobre del ’43 Franz e i suoi li mandarono via da Roma. Lui mi disse che era un modo per tenerli lontani dalle tentazioni, per farli stare tutti insieme, in fin dei conti era per il loro bene, ma poi molti anni dopo, seppi cosa fosse accaduto. Del resto ci sarà stato un motivo per il quale quella ebrea era una razza da sottomettere, ti pare? Anche i cattolici lo dicevano, erano stati loro a crocefiggere Gesù!” aveva infine commentato con sguardo fiero.

I SUOI PASSI LEGGERI

Dall’ antologia I doni della mente

Non mi è mai piaciuto mio nonno, dico sul serio. Anzi per la verità non sono mai riuscito a soffrire la sua presenza dentro casa nostra. La nota stonata che trasformava la melodia della nostra vita familiare in una nenia tediosa che non si aveva voglia di ascoltare. Eppure non c’era nulla da fare, nonostante avessi più volte manifestato la mia insofferenza a quella presenza pesante e deprimente, tutta la mia famiglia si univa compatta dalla sua parte, lasciandomi solo. Mi chiedevo perché mai i miei genitori nutrissero devozione verso quel rottame umano che minava la nostra serenità. Mio padre era aperto a ogni dialogo con me e mio fratello più piccolo e la comprensione che mia madre aveva nei nostri confronti era infinita. Sì, ma non per ciò che riguardava l’argomento nonno. Così io capii ben presto che era inutile insistere. Avrei dovuto sopportare quell’uomo con i suoi occhi affossati e cerchiati di nero e quel viso deformato da una paresi che gli torceva la bocca, dai lati della quale colava sempre un po’di saliva, e la cui smorfia lasciava intravedere i resti ingialliti della sua antica dentatura. Avrei ancora dovuto vedere i suoi capelli ricci, candidi e radi, che stanchi ricadevano sulla sua fronte segnata. Tutto di lui mi inquietava, odiavo il suo odore di vecchio, detestavo le sue mani macchiate e rugose al punto da non riuscire più a mangiare il pane se solo lo aveva toccato. E infine quel numero marchiato all’interno del suo polso 12956, con un inchiostro blu, ancora nitido tanto da contrastare con la sua pelle quasi trasparente, come un livido che non se ne sarebbe mai andato. Insomma io odiavo quel suo essere ebreo. Mi ricordavo di lui così da sempre, vecchio e impaurito, irrimediabilmente ferito dal destino che gli aveva tolto tutto, ma con un guizzo nello sguardo intriso di antico orgoglio, pervaso dalla strana consapevolezza di appartenere a tradizioni e storie impossibili da soffocare, nonostante tutto. Il suo inspiegabile orgoglio di essere ebreo.

I miei ricordi di bimbo mi riportavano a quando lui mangiava ancora con noi e, durante la cena che precedeva lo Yom Kippur, era a lui che veniva affidato il compito di tagliare il pane e la carne. Lo studio della Torah e la solennità di quei festeggiamenti non facevano per me, così come tutto ciò che in quella cornice veniva perpetrato. Nonostante tutti considerassero la nostra somiglianza, tanto nei lineamenti quanto nel modo di fare, un grande dono ricevuto da Dio, io crescendo maturai l’assoluta convinzione di essere completamente diverso da lui. Mi resi conto di non sentirmi un ebreo. Immancabilmente, alla fine delle feste, delle giornate passate in sinagoga io mi sentivo un estraneo. Questo stato d’animo non era giustificato né compreso dai familiari, parenti e amici, che all’inizio cercarono in tutti i modi di risvegliare in me l’orgoglio delle origini. Volevano indurmi alla rassegnazione di essere nato ebreo, senza riuscirvi. Gli anni passavano e il rancore verso la mia condizione cresceva, allontanandomi da tutti.

Arrivò poi il tempo nel quale mio nonno abbandonò l’abitudine di mangiare insieme a noi e scivolò in un oblio senza fine. Nella sua mente tutti coloro che frequentavano la nostra casa erano delle spie pronte a denunciarlo ai nazisti. Io capii che era giusto così, che si isolasse a mangiare da solo in camera sua, in una volontaria prigionia, uscendo da lì solo di notte, per compiere innumerevoli volte lo stesso percorso nel corridoio, dalla sua camera alla cucina, poi al bagno e indietro alla sua camera. Era giusto che si fosse finalmente tolto dalla mia vista. I suoi passi si trascinavano nel corridoio, di notte, cadenzati come se i piedi fossero stati legati da una pesante catena, e rimbombavano nella mia mente, finendo poi per cullare i miei sogni.

Per molti anni quello fu l’unico contatto che restò tra noi due. Finché arrivò il giorno in cui invitai gli amici a fare i compiti a casa e lui riuscì a metterli in fuga, uscendo dall’esilio della sua stanza con coraggio inaspettato. Gridava che erano tutti spie e che ci avrebbero denunciati. Mi sono vergognato terribilmente nel vedere i miei amici andar via di corsa, spaventati da quel pazzo piombato nella nostra allegria con il suo delirio persecutorio. Avrei voluto piangere e gridargli finalmente di uscire dal mio mondo, ma il patriarca non si poteva toccare.

“Bisogna avere pazienza!” mi ripeteva mia madre “Tuo nonno ha sofferto tanto e lo ha fatto anche per noi. Tutti loro, in quei campi di sterminio, si sono immolati per noi”.

Non rispondevo, non osavo dirle che non provavo alcuna riconoscenza per un sacrificio collettivo che sicuramente non era stato fatto per me. Anzi, con il passare del tempo, sentivo che ogni goccia del mio sangue smentiva la mia appartenenza alla razza ebrea. Il mio Dna parlava di storie completamente diverse da quella che voleva raccontare sempre lui, con i suoi occhi persi nel vuoto, quella smorfia indelebile e quel maledetto numero 12956, che si leggeva chiaramente mentre agitava per aria il braccio, nell’intento di cacciare le spie immaginarie. Che razza di uomo poteva essere mai stato uno che, come lui, aveva permesso che gli portassero via la moglie e il figlio, senza far nulla, un uomo che si era fatto marchiare a fuoco come fosse la pecora di un gregge? Che razza di uomo era mio nonno per non essere riuscito a fermarli? E cosa voleva ora da me con le sue grida biascicate all’indirizzo dei miei amici, della mia vita che nulla avrebbe avuto in comune con la sua? Mi specchiavo e riconoscevo nei miei lineamenti e nei miei muscoli la forza, l’onnipotenza che solo i giovani riescono a provare. 

Io sì che avrei saputo come fare. Mi ostinavo a non credere a quel che veniva raccontato del passato, detto sul presente e immaginato nel futuro, descritto con la rassegnazione di chi sa che nel proprio destino ci saranno inevitabilmente nuove persecuzioni, altri stermini. Niente di tutto ciò sarebbe mai accaduto a me. Mi rifiutai di frequentare ragazze ebree, come cercavano di indurmi a fare i miei, e provai a inserirmi in ambienti diversi. Non avrei mai formato una famiglia che potesse essere oggetto di persecuzione, non avrei mai creato i presupposti per essere marchiato a fuoco. Tagliai a zero i miei capelli ricci, disertai la sinagoga, evitai di indossare la Kippà. Cercai perfino di nascondere il mio naso camuso spingendo sin sulla punta le pesanti lenti Ray-Ban, che lo mascheravano con la loro ombra. Finché mi sembrò di non avere più alcuna caratteristica riconducibile agli ebrei. La mia vita l’avevo già pianificata contro ogni aspettativa dei miei parenti. Mi sarei trasferito negli Stati Uniti, in qualsiasi luogo dove un ebreo è solamente un essere umano, mi sarei laureato in legge e avrei sposato una ragazza americana, affogando nell’incontro con altri Dna le mie origini e il destino nefasto della mia gente. E mi piaceva fantasticare sul mio futuro affacciato alle finestre della mia stanza, in questo grande appartamento non lontano dal ghetto, la cui veduta spazia sul lento corso del Tevere e da cui è sempre visibile il tetto della sinagoga, illuminato dal sole o bagnato dalla pioggia, sempre muta testimonianza a ricordarmi che io sono un ebreo

Sono passati gli anni e ho messo in atto tutti i miei progetti. Ho preso contatti con l’università di Boston e a settembre inizierò il corso di studi che desideravo seguire. In tasca ho il biglietto del volo Pan Am, che mi porterà via da qui dopodomani. La novità è che l’altro ieri mio nonno è morto, vecchissimo, nel sonno. Ce ne siamo accorti perché nessuno di noi aveva udito, come ogni notte, i suoi passi terrorizzati andare su e giù per il corridoio. Non ho provato nulla se non la beffa che ci avesse lasciati proprio quando anch’io avevo finalmente deciso di andarmene. Mio padre ha voluto che venisse deposto nella bara in modo che fosse visibile, sul suo polso ormai scheletrico, il numero 12956, quasi un ammonimento gridato alle tenebre dell’aldilà. Non ho voluto neanche salutarlo per l’ultima volta mio nonno. Ho solo sostato nel corridoio ormai solcato dai suoi passi, in attesa che chiudessero la bara e lo portassero via. L’eco dei singhiozzi degli altri si è perso nella mia mente cinica. Al ritorno dal funerale, forse proprio per il distacco che ho sempre dimostrato nei suoi confronti, mi è stato affidato il compito di mettere ordine tra le cose che ha lasciato, per impacchettare tutto ciò che potrà essere gettato via.

Nella sua camera si percepisce ancora il suo odore, che trovo invariabilmente insopportabile. Sul letto c’è solo il materasso, le lenzuola sono state tolte. Questo silenzio non mi fa alcun effetto. Voglio fare in fretta, farò il pacco delle cose da eliminare e poi andrò a chiudere le mie valige. Stamattina, durante il funerale, è piovuto forte. Un temporale estivo che ha lasciato il posto all’afa. Dalle finestre si vede, ancora meglio che da quelle della mia stanza, il tetto della sinagoga che riflette da un lato il sole e dall’altro le poche nuvole grigie che si allontanano dalla città. Quello strano tetto mi sembra un enigmatico specchio che riflette solo ciò che si vuol vedere. Lascio la finestra aperta e inizio a rovistare nell’armadio, notando che la roba da selezionare è veramente poca. Qualche vestito, alcune maglie di lana, varie Kippà, un candelabro poggiato alla parete interna dell’armadio. Secondo i racconti di mio padre, prima della guerra la loro era stata una famiglia ricca e la professione di orafo, che mio nonno aveva ereditato dal padre, rendeva bene. Quando i nazisti chiesero l’oro agli ebrei romani in cambio della loro libertà, mio nonno convinse un gran numero di persone a donarlo e lui stesso si spogliò della quasi totalità dei suoi averi. Era convinto che sarebbe stato in grado di ricominciare quando l’assurdità della guerra fosse terminata. L’importante era che lasciassero in pace lui e la sua famiglia, cioè sua moglie Ester e suo figlio Davide di sette anni, mio padre. Ma poi, come sappiamo tutti, non fu così e in una notte d’autunno, nell’ottobre del ’43, caddero nella retata dei nazisti come gran parte degli ebrei romani, per essere poi deportati ad Auschwitz, da cui mia nonna Ester non tornò più. Per lo strano concatenarsi di eventi che a volte separa la vita dalla morte, mio padre fu affidato a una loro vicina che, eludendo la sorveglianza dei nazisti, lo portò in salvo insieme ad altri due bambini, nel vicino convento di San Bartolomeo. Solo dopo molto tempo dalla fine della guerra mio nonno riuscì a riabbracciare suo figlio e, da quel momento, non lo lasciò mai più, neanche dopo il suo matrimonio con mia madre. Neppure di fronte a questi ricordi riesco a impietosirmi. Io, ne sono certo, avrei fatto ben altro, avrei usato diversamente i miei soldi, magari pagando la fuga molto prima, né sarei caduto nel tranello delle iene naziste. Mi riparo gli occhi dalla luce infuocata del tramonto che, riflessa dal tetto della sinagoga, si riversa in questa stanza.

Accidenti è quasi sera, debbo sbrigarmi! Nel fondo dell’armadio vedo piegati un paio di pantaloni, al cui tatto si riconosce la fatturazione di ottima lana, anche se sono orribilmente logori. Li spiego per vederli meglio e dall’interno cade un foglio di carta. È una pagina di quaderno a righe, ingiallito, anche se restano intatte le righe azzurre orizzontali e quelle rosse del margine verticale. Sembra un foglio da prima elementare, ma la calligrafia è di una persona adulta. Mi siedo sul bordo del letto e cerco di decifrare ciò che vi è scritto, poiché in alcuni punti l’inchiostro sembra essersi bagnato:

 “Caro amore, ti scrivo ciò che non riesco a dirti guardandoti negli occhi. Sono incinta di otto settimane. So che all’inizio avrai paura per questa notizia, l’ho avuta anch’io. Ma dopo la prima impressione, cerca di esserne felice come lo sono io. Vedrai, la guerra passerà, tutto ciò finirà e noi avremo la gioia di una famiglia completa. Sono sicura che sarà una bambina e la sua vita già cresce con forza dentro di me, lasciandomi stupita. Stavolta sarò più brava, non piangerò come mi succedeva quando aspettavo Davide, Sai, quella tristezza viene solo alla prima gravidanza. Caro amore, vedrai che noi ce la faremo! Ti amo tanto Ester”.

Sono seduto sul letto eppure mi sembra di scivolare giù da una montagna. Guardo la data, ma è illeggibile. Si vede bene solo l’anno, il 1943. All’improvviso sento vacillare tutto il mio mondo e le mie difese. Un martello inizia a battere nella mia mente e a ogni colpo mi sembra di vedere quel numero 12956, 12956 conficcarsi nei miei pensieri, squarciando i miei giudizi, le mie convinzioni. Le ultime luci del tramonto carezzano il mio volto e vedo delle gocce umide cadere sul foglio. Non è possibile, sono le mie lacrime. Insomma, cosa mi sta accadendo? Separo il foglio di carta dalle cose che dovranno essere gettate e preso da un’incomprensibile smania frugo ancora in quel lacero pantalone. Dalla tasca esce un pezzo di carta, sembra carta da pacchi, stropicciata e sbiadita. Riconosco la stessa calligrafia:

Caro amore, spero che ti verrà recapitato questo mio scritto da Ines, che può raggiungere la tua baracca. Io vado avanti e cerco solamente di pensare che Davide è salvo e lontano da qui. Non ti preoccupare per me, abbi solamente cura di te. Stanotte ho sentito muovere la bambina per la prima volta! Ti amo tanto Ester”.

Sento di avere tra le dita un inestimabile tesoro, ho addirittura paura ad adagiarlo sul materasso. Lo infilo delicatamente nella tasca dei pantaloni, da cui scivola in terra il mio biglietto aereo. È l’ultimo messaggio intriso d’amore scritto da una piccola donna indifesa, che avrebbe fatto la “doccia mortale” di lì a pochi giorni. Mi sembra di vederla muovere i suoi passi leggeri, col ventre appena rigonfio e i pensieri concentrati sui movimenti della creatura che porta in grembo, mentre ignara si avvia verso la camera a gas. Mi sembra di sentirli nel corridoio di casa quei passi leggeri, confondersi con quelli terrorizzati dell’uomo che lei amava così tanto. Mi sdraio, immobile, fissando il soffitto. Ormai è sera e su di esso le cime degli alberi, mosse dalla brezza notturna, compongono delle strane ombre, che mi raccontano un’altra storia e mi mostrano ciò che non ho mai voluto vedere. La gioia e l’amore, la follia e la crudeltà, l’orgoglio, il coraggio e la disperazione. Luci e ombre, vita e morte. Di fuori è notte, me lo dice il bacio della luna riflessa dal tetto della sinagoga. L’odore di mio nonno è svanito nella pura aria notturna ma vorrei tanto, per la prima volta, risentirlo. Scendono ancora silenziose le mie lacrime e io mi chiedo perché non ho mai voluto leggere ciò che mostravano i suoi occhi spenti. Mi sembra che siano passati degli anni invece che poche ore in questa stanza. Sento di essere diverso, finalmente libero dal peso che non mi faceva entrare aria nei polmoni. Respiro profondamente la sensazione che mi pervade e mi scalda. Ora ogni goccia del mio sangue, ogni allele del mio Dna gridano una sola frase, che sento salire con violenza alle labbra. Mi alzo dal letto e vado verso la finestra, per gridare forte le parole che prorompono come la lava eruttata da un vulcano. Lo urlo alla luna riflessa dalle acque del Tevere, alla silenziosa sinagoga, agli uccelli notturni che solo ora non temo più. È con rabbia impietosa, ma anche con struggente e antico amore che grido:

“Io resterò!”

***

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Allora è così che si invecchia


Allora è così che si invecchia amore mio, e non l’avrei mai detto quando credevo che il rosso passionale avrebbe lasciato il posto a tenui colori pastello. C’è stato un tempo nel quale avrei giurato che il battito veloce del cuore si sarebbe tramutato in quello stanco di un volatile in caduta, che la rugiada sui petali di rosa null’altro sarebbe stata che lacrime di occhi anziani e stanchi, che un giorno di noi non sarebbe rimasto poi granché.

E invece no, ci si rende conto di invecchiare nella veloce vertigine che assale nel levarsi dal letto al mattino, nella fatica a salire le ripide scale, nell’affanno di una corsa che non è più facile come quelle che ricordavamo. Ma il resto no, amore mio dolcissimo. Il battito di quelle ali è sempre più veloce, la rugiada riflette ancora il tuo sorriso sensuale e vicino a te il rosso è sempre più luminoso e passionale.

Ci si invecchia nel non stancarsi mai di stare insieme, nel desiderare la notte al ritmo dei nostri respiri, nel prenderci per mano ancora, seppure a volte tremeranno, e nel riuscire a udire solo le frasi d’amore che sgorgano sempre più belle e vive, anche se rischieranno di essere coperte dai sonori ronzii del nostro udito. Ci si invecchia pensando che dove andrai tu, verrò anch’io, sempre con te amore mio.

Tratto da “I doni della mente” su Amazon in Edizione cartacea ed ebook

In versione ebook anche su Kobo:   

https://www.kobo.com/it/it/ebook/i-doni-della-mente

 

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“La Generazione Mancante”


Non è lontano il futuro nel quale gli anziani…

LA GENERAZIONE MANCANTE

Una giornata di sole come non se ne vedevano da tempo nella vallata. Finalmente un vero accenno alla primavera dopo i vani tentativi di un sole stanco. Era il sedicesimo quarto del 2089. Roberto si era alzato presto, la riunione sarebbe iniziata di prima mattina e lui avrebbe dovuto concludere la fusione della Ditta da lui amministrata in Eurasia con quella gemella di Oltreoceano. Lui sentiva però nell’aria qualcosa di strano, che lo infastidiva, lo avvertiva anche ora che inspirava con gusto quell’aria mite. Nonostante ciò, il sole lo stava mettendo di buon umore e, ancor più, lo avevano rallegrato i tanti auguri giunti per il suo compleanno. Aveva iniziato la banca a farglieli, imprimendoli nel display delle transazioni online, poi gli si erano materializzati sullo schermo virtuale e tridimensionale, che occupava una parete dell’ampio salone di casa. Li aveva perfino letti sull’ordine telematico degli alimenti per la cena e, insomma, dovunque si fosse trovato a utilizzare il suo cartellino magnetico. Quel pass par tout, rigido e di un colore rosso vermiglio, gli era stato assegnato alla nascita e aveva accompagnato tutta la sua crescita, perfino l’entrata a scuola, in chiesa e nelle discoteche. Era stata la sua garanzia di appartenenza alla società che si era creata dopo l’Avvento dei Giovani. Le strade, delimitate da campi magnetici, registravano la sua entrata nel proprio settore, perfino i centri commerciali gli spalancavano le porte scansionandone gli estremi e, grazie ad esso, lui non aveva mai incontrato difficoltà. La nuova società, con le sue ferree regole e la sua capillare organizzazione, rappresentava un’indiscutibile certezza. I giardini, perfettamente curati e di dimensioni precise, sfoggiavano tutti la stessa piacevole gamma di colori, il ciclo dell’immondizia era strutturalmente diversificato e i rifiuti riutilizzati, le strade terse e senza tracce di rifiuti organici. Nella nuova dinamica sociale ognuno aveva la sua giusta collocazione, esattamente come tutto ciò che lo circondava. Senza contare che gli imprevisti erano stati quasi azzerati e perfino i fenomeni naturali, per quanto estremi, riuscivano a essere governati. Insomma, dopo l’Avvento tutto aveva ritrovato il proprio ordine. E ora lui, alla soglia del suo sesto decennio, sapeva che sarebbe finalmente entrato nella fase del miglioramento, una nuova e sconosciuta dimensione dove erano transitati coloro che lo avevano preceduto. Sarebbe stata una sorta di Nirvana, così dicevano le nuove scritture. Nei micro cip di storia veniva descritto dettagliatamente il fallimento della società degli anziani, ciò che aveva preceduto il nuovo assetto. E la vecchia società, caotica, sporca e inefficiente era ormai un lugubre ricordo che l’umanità doveva solo aborrire. Lui, come tutti, conosceva una famiglia collettiva, composta da persone giovani, che lo avevano cresciuto e formato fino a farlo divenire manager della Ditta. Pigiò, come tutte le mattine, il suo cartellino rosso sulla costola sottostante il muscolo pettorale sinistro, dove sarebbe rimasto per l’intera giornata, calamitato dal micro cip inserito sotto pelle, contenente i suoi dati. Aveva dimenticato pochissime volte di compiere quel gesto, ma ciò che ne era conseguito aveva fatto sì che divenisse per lui un’azione normale, come il fatto di  respirare. Si era trovato infatti impossibilitato anche ad accedere al suo stesso bagno, così come alla cucina o alla piscina coperta dove, anche oggi, avrebbe fatto una corroborante nuotata.

E dopo la consueta immersione si preparò per andare al lavoro. Quella sarebbe stata una giornata storica per l’economia mondiale e la sera lui avrebbe festeggiato andando a fare una visita nella vicina Città del Sesso. Gli piaceva ogni tanto recarsi in quella sorta di villaggio pulito e controllato, che si ergeva non lontano dalla grande metropoli, dove si poteva sfogare con naturalezza qualsiasi istinto. Sorrise pensando a come vi si sarebbe divertito e rilassato e, mentre si spalmava il dopobarba, avvicinandosi allo specchio che ingrandiva i particolari del suo volto, non volle far caso alle piccole e incipienti rughe attorno agli occhi. Canticchiando, diede un colpetto di spazzola ai capelli leggermente brizzolati, preoccupandosi solamente di vestirsi in fretta. Mancava poco all’arrivo della sua auto. Scese al piano sottostante per bere la colazione calda che trovava puntualmente ogni mattina, così come previsto dal suo piano alimentare, preparata dalla cuoca e cameriera messa a sua disposizione dalla Ditta. Con sua enorme sorpresa non trovò la giovane donna alta, capelli rossi e braccia energiche e, ancor peggio, non c’era neanche la colazione. Irritato per quello che era il primo ritardo in tre anni di servizio della donna, si avvicinò al piano di cottura per scaldare un po’di caffè, ma anche questo sembrava non rispondere ai suoi comandi. Non partiva neanche l’energia suppletiva prevista in quei casi. <<Ma cosa diavolo sta accadendo?>> si chiese, infastidito dai contrattempi a cui non era abituato e tanto meno preparato. Guardò l’ora. Mancavano quindici minuti alle otto. Ormai l’autista doveva essere arrivato. Pensò che avrebbe chiarito tutto al ritorno e si avvicinò alla porta d’ingresso, prendendo la valigetta nera contenente il computer e alcuni documenti.

Uscì e l’aria dolce della primavera, carica dell’essenza di fiori nuovi, invase le sue narici e tutto il suo essere, facendogli dimenticare i noiosi inconvenienti. Respirò a pieni polmoni e tornò a considerare, soddisfatto, che quello era un grande giorno. Volse lo sguardo alla strada sicuro di trovarvi l’auto ad attenderlo, ma non c’era nessuno. Era troppo. Prese il cellulare e una voce sibilò nel suo orecchio “Auguri di buon compleanno!” clak. Niente più, solo l’insolito vhuu di una linea sconnessa. La sua mano andò meccanicamente a cercare il cartellino rosso, che stava come sempre al suo posto. In tutta la sua vita non gli era mai capitato quello che stava avvenendo quel giorno. Poggiò in terra la valigetta e vi si sedette sopra. Portò le mani alla testa e affondò le dita tra i capelli. Improvvisa la visione di un’auto scura e veloce, priva dei contrassegni della Ditta, attirò la sua attenzione. Dalla vettura scesero due giovani, che indossavano le divise dell’Autorità Interna e si dirigevano verso di lui, sorridendo.

 “La società dell’Avvento le augura buon compleanno!” Roberto sorrise, forse era tutto uno scherzo, messo in atto per fargli una sorpresa. I due uomini, della medesima altezza, indossavano lo stesso modello di occhiali da sole e sfoggiavano un identico taglio di capelli, uno biondo e l’altro castano. Si avvicinarono.

“Ci può favorire il cartellino rosso?” Roberto li guardò esterrefatto. In vita sua non se ne era separato neanche un attimo.

“No, perché mai?” rispose indignato.

“Non si preoccupi, fa solo parte delle procedure di transizione!” disse il biondo. Roberto pensò che fosse meglio accondiscendere alle loro richieste, soprattutto perché si stava facendo tardi.

“Eccolo” disse seccato, staccandolo dalla pelle che ricopriva il suo costato. Il biondo lo passò al moro, che lo inserì in un contenitore, dal quale ne tirò fuori uno identico, ma nero.

“Da oggi in poi dovrà utilizzare questo, esattamente come ha fatto con il rosso”.

 “Ma…” tentò di ribattere Roberto.

“Non c’è nulla da aggiungere, proprio come ha utilizzato finora il rosso. E buon proseguimento!” gli dissero all’unisono i due mentre, sorridendo, velocemente tornavano all’auto. La vettura scomparve in breve all’orizzonte.

 “Ma…” tornò a dire Roberto sottovoce, rivolto alla strada deserta, che come una lingua scura scendeva verso la vallata. Tutto ciò aveva dell’incredibile, pensò, mentre posizionava il cartellino nero dove fino a poco prima pendeva quello rosso. Doveva cercare di contattare la Ditta, ci sarebbe stata una spiegazione plausibile. Cercò di rientrare in casa, ma l’uscio non si aprì. Roberto iniziò a ridere nervosamente, si sedette sui gradini e accese il computer, si sarebbe messo in contatto con la sua segretaria. Sul desktop risaltava un grandissimo augurio di buon compleanno, ma non esistevano più i suoi file e non c’era alcun tipo di collegamento. Stupefatto iniziò a sudare, si allentò il nodo della cravatta. La giornata iniziava a essere maledettamente calda, e quel sole che tanto lo aveva rallegrato ora stava rendendo lo scenario addirittura ossessivo. Lasciò la valigetta con il computer sul ciglio della strada, si tolse la giacca, la ripiegò sull’avambraccio e iniziò a camminare.

Finalmente la città, con le sue vie terse e ordinate, attraversate da veicoli a lui familiari. Tutto riprendeva il giusto spessore e lui godeva nel vedere il traffico silenzioso e ben pianificato. Venne colto dal profumo dell’aria cittadina, dove innumerevoli vite correvano senza fare rumore e producevano quel benessere comune a cui anche lui tanto aveva dedicato della sua esistenza. Raggiunse il punto di trasporto dove una serie di autovetture attendevano solamente l’arrivo del passeggero. Le osservò compiaciuto. Erano automobili piccole di dimensioni le cui ruote, dallo pneumatico sottile e con un ampio cerchione sgargiante, davano un tocco di eleganza. Tutte, anche se ognuna di colore diverso, possedevano il lunotto posteriore dal design leggermente ricurvo, che scendeva verso una targa fosforescente, i cui numeri e lettere cambiavano ogni trenta secondi. La numerazione si sarebbe fermata solo quando il passeggero avesse sfiorato la portiera dell’auto, facendo così scansionare il suo cartellino. Roberto si stava finalmente rilassando, gli sembravano già lontani tutti gli imprevisti che avevano caratterizzato il suo risveglio. Volle notare, quasi ipnotizzato, il susseguirsi degli elementi identificativi delle targhe XA23981, WZ956N0, YCDEV762. Ogni trenta secondi esse mutavano aspetto e colore e lui provò qualcosa di molto simile a un capogiro. Decise di salire sulla macchina di colore grigio che aveva di fronte. Si avvicinò alla portiera, ma il meccanismo informatico non riconobbe il suo cartellino. Di nuovo tornava l’incubo.

Preso da una frenesia incontenibile si portò verso gli sportelli delle altre vetture. Niente, nessuna si apriva al suo contatto. L’ultima, nera di colore, invece, emise il suono di aria compressa che faceva scattare la serratura. Prima di salire Roberto volle sincerarsi che anche i numeri della targa si fossero bloccati e così era, AWXF43521. Salì, finalmente confortato, nell’accogliente abitacolo, e si sedette sul divanetto in pelle che, con la sua forma di comodo semicerchio, prendeva quasi la totalità dello spazio interno. L’autovettura, munita di motore elettrico e senza conducente, disponeva anche di una cloche a mezzaluna e di un sedile anatomico, che garantivano la possibilità del passaggio ai comandi manuali in caso di necessità. Sul video del cruscotto si materializzò la scritta “Buon Compleanno!” e una voce metallica esortò Roberto a impostare l’indirizzo di destinazione sulla tastiera che, salendo contemporaneamente dal pavimento, si era già posizionata alla sua destra. Mentre una cintura di sicurezza avvolgeva automaticamente il suo torace, lui sorrideva, pensando che la procedura di transazione era costellata di sollecitazioni particolari. Senza indugio impostò l’indirizzo della Ditta e l’auto iniziò il suo percorso. Era tanto tempo che Roberto non si serviva del trasporto urbano e gli stava piacendo molto vedere l’efficienza e l’eleganza dei particolari meccanismi di cui l’autovettura era dotata. La tastiera con l’indirizzo era sparita velocemente e, al suo posto, si era materializzato un contenitore di acqua. Lui bevve di cuore, anche se la climatizzazione dell’auto non gli faceva più soffrire la calura esterna. Fuori dai finestrini oscurati scorrevano gli edifici e il paesaggio della sua città, mentre il suo viaggio continuava in quell’involucro morbido e ovattato.

Il computer di bordo materializzava sul display la distanza rimanente per giungere a destinazione e il tempo necessario per percorrerla, la temperatura esterna e quella interna e le previsioni meteorologiche per le successive ore. Quando tutto sembrava ormai rientrato nella normalità, Roberto si accorse che non appariva più l’indirizzo della Ditta come destinazione del suo viaggio. Anzi sul monitor si susseguivano scritte a lui incomprensibili. Guardò spaventato fuori dal finestrino e si accorse che il paesaggio esterno stava rapidamente cambiando, mentre lui non riconosceva più i luoghi che, veloci, sfrecciavano davanti ai suoi occhi esterrefatti. L’auto si fermò e il meccanismo ad aria compressa aprì la portiera. Sul monitor apparve la scritta Benvenuti a destinazione e la cintura di sicurezza liberò il suo corpo. Roberto si gettò sul pulsante che permetteva il passaggio ai comandi manuali, ma sul video apparve il messaggio Accesso Negato, Accesso Negato, che continuò a ripetersi finché lui non poté fare altro che scendere. L’auto richiuse lo sportello e corse via velocemente.

Si trovava fuori dalla città, ai limiti della foresta che attorniava l’agglomerato urbano. Una brezza sottile muoveva dolcemente le chiome degli alberi e lui notò, all’imbocco della strada sterrata, un interminabile tapis roulant, che fendeva come una lenta spada il costato della selva. Vi salì, non sapendo più quale sarebbe stata la sua reale meta. L’odore rorido del sottobosco lo avvolse, accogliendolo. Alla fine, si trovò a deambulare per un sentiero sterrato. Ormai era quasi sera e anche la terra che lui calpestava pesantemente emanava un odore umido. Vide in lontananza dei fuochi e vi si diresse, senza un perché. Nell’avvicinarsi incontrava delle figure sconosciute. I loro tratti umani risultavano molto diversi da quelli a lui noti. Capelli canuti, sguardo perso nel vuoto, solchi scavati in volto. Si sedette vicino al fuoco, era esausto. La donna di fronte a lui, la cui magrezza era messa in risalto dai lunghi capelli bianchi, penetrava con il suo sguardo chiaro le alte lingue della fiamma.

“Dove mi trovo?” le chiese con tono implorante. Lei sorrise, si alzò e gli si sedette vicino.

“Hai fame?” La sua voce era dolce e melodiosa, ma ciò non leniva la sua disperazione.

“No, non ho fame, non ho sete, voglio solamente sapere dove mi trovo!” La donna gli carezzò i capelli.

“Sei tra noi, non sapevi che esistevamo vero?” Roberto la guardò meravigliato e chiese ancora:

“Ma chi siete voi?” Il tono che aveva usato era quasi schifato e rabbioso, ma la donna sorrise indulgente.

“Siamo gli anziani o, se preferisci, i vecchi”. Roberto la fissò con le pupille dilatate. Non poteva essere, quelli di cui la donna stava parlando avevano fallito e la società si era liberata di loro già da molto, moltissimo tempo.

“Cosa mi stai dicendo, vecchia!” esclamò, sottraendosi alla sua carezza. Senza modificare il tono di voce, la donna continuò:

“Non mi credi, vero? Ma guardati attorno, vedi più niente che ti sia familiare?”

Roberto volse lo sguardo in giro. Era vero, non riconosceva quel mondo. Si sentiva sfinito e la donna gli fece poggiare la testa sulla sua spalla mentre, continuando a parlare, riusciva di nuovo a carezzargli i capelli.

“Vedi, noi siamo la generazione mancante”. Roberto, incantato da quella voce, seguì con inspiegabile fiducia il suo racconto. “La generazione che è stata soppressa per il bene dell’umanità”

“Com’è possibile?” Chiese lui. La donna sorrise amaramente e andò avanti:

“Giunse un tempo nel quale i sistemi previdenziali saltarono e gli anziani dovettero lavorare fino alla morte. I giovani, condannati a lavori sempre più insicuri, se poi riuscivano a trovarne, e nell’impossibilità di progettare la loro vita futura, vedevano i vecchi occupare non solo il mondo lavorativo, ma anche tutti i posti di potere. E la scienza utilizzata per garantire loro una sempre maggiore aspettativa di vita. Gli anziani governanti non capirono in tempo quale frattura sociale si stesse creando e gestirono il potere senza saggezza, facendo sempre maggiori danni, con la sola preoccupazione di non dar spazio a quella generazione. La collera di quei ragazzi crebbe e con rabbia essi si organizzarono in incontenibili rivolte di massa. Accadde l’imprevedibile. Le due generazioni si scontrarono selvaggiamente e le città si riempirono di morti. Una guerra lacerante, le cui conseguenze furono inimmaginabili. La nuova generazione ebbe la meglio e ciò che seguì fu una spietata caccia all’anziano. Per le strade, nei quartieri e, dovunque ne trovassero uno, le esecuzioni erano immediate, plateali. Non vi fu neanche la pietà dei figli verso i padri, era ormai solo una questione di sopravvivenza. Una volta preso il potere, i giovani misero in campo tutte le loro energie e potenzialità, e riuscirono a creare una società organizzata diversamente, finalmente ordinata e funzionale, cercando soprattutto di non ripercorrere gli errori che erano stati fin lì compiuti. Tutto, ogni singola azione venne programmata e controllata con la creazione di reti informatiche sempre più capillari e sofisticate, sai i giovani ci sapevano fare con i computer! I vecchi, invece, furono quelli che pagarono lo scotto maggiore, all’inizio eliminati, poi spinti ai limiti della società, resi invisibili e infine dotati del cartellino nero”.

La mano di Roberto andò meccanicamente al suo costato. Lei gli sorrise consapevolmente e gli domandò:

“Anche tu ne hai uno, vero?” Roberto la guardava incredulo. Nella sua civiltà non esisteva il termine vecchio. I deputati del suo Parlamento avevano meno di trent’anni, così come il Sommo Pontefice, che ne aveva compiuti da poco ventisette. Di cosa stava parlando quella donna?

“Cosa stai dicendo, vecchia! La vostra società ha fallito, ce lo hanno insegnato, sai! Non siete riusciti in niente! Gli alimenti ormai erano veleni e l’immondizia non veniva più raccolta. Nelle città la gente poteva respirare solo con l’aiuto di maschere filtranti e la corruzione era divenuta la vostra regola. Siete perfino riusciti a distruggere l’equilibrio naturale, avete disboscato le foreste e avvelenato il mare! Quello sì che è stato il vero massacro. La vostra società aveva fallitooo!” le gridò con veemenza. Lei lo guardò impassibile.

“Può darsi ma, insieme a questo sfacelo, noi possedevamo dei valori insostituibili. La conosci tu la vera passione, hai mai provato il calore della famiglia, con i nonni che raccontano le favole ai nipotini, sai cosa sia un nonno?” No, Roberto non lo sapeva, Iniziò a sentire dei brividi, la notte si preannunciava fredda e lui si stava sentendo perso in un mondo di vecchi, che non credeva esistesse. La donna continuava a parlare:

“Molti di noi tentano a volte di prendere il mare a bordo di zattere, poiché si dice che nell’Oltre Mediterraneo esistano ancora delle società tribali rispettose degli anziani, che li accettano e li venerano perfino, ma nessuno mai è tornato per rassicurare gli altri che ciò sia vero. Anzi, a volte le onde hanno riportato a riva i loro cadaveri!”

Roberto era in preda a un delirio mentale, che non gli lasciava alcuna lucidità e si guardò attorno. Il sentimento nuovo che stava nascendo in lui lo stupì. Era una grande, incommensurabile pena. Molti individui si scaldavano attorno ai fuochi, chi tossiva, chi si asciugava gli occhi, per le lacrime dovute forse all’invecchiamento delle loro cornee. Tutti però cercavano di incoraggiarlo, sorridendogli. Nei loro sguardi non c’era automazione, ma esperienza, il loro sorriso non trasmetteva soddisfazione, ma consapevolezza. Dai loro movimenti goffi e lenti, così lontani da quelli veloci ed efficienti a cui lui era abituato, traspariva un’immensa, abissale amarezza. Un uomo dalle mani rugose, le cui vene sembravano schizzare fuori dalla pelle raggrinzita e macchiata, gli porse una ciotola con dell’acqua e Roberto bevve avidamente. Il suo sguardo andò al quadrante del suo orologio, che lo informava costantemente dei valori vitali, compresa l’idratazione delle sue cellule, ma ora vi si leggeva solo una scritta fosforescente: Buon compleanno! Stordito tornò a poggiare il capo sul seno della vecchia e si addormentò al ritmo del suo cuore. L’odore di quella pelle era diverso e sapeva di fiori e di antico, quella scorza ruvida e solcata emanava un inebriante calore, nascondendo un’intima e accogliente morbidezza. E lui liberò la mente in un mondo onirico, che confondeva la luce con le tenebre. Vide chiaro, come illuminato da un lampo, il sottile confine esistente tra ragione e follia. Anche lui ora sarebbe dovuto sparire alla vista dei giovani, senza possibilità d’appello. Ci sarebbe stata sempre una generazione mancante per pareggiare quel disumano conto. Sognò della sua realtà, di se stesso, ora vecchio confuso in mezzo ai vecchi. E provò una immensa angoscia per quella società di giovani, priva dei valori che forse non avrebbe più potuto assaporare. Lui ora ne conosceva il significato e il valore. Ne era stato appena avvolto e già sentiva di non poterne fare più a meno.

Alla fine non furono neanche più i sogni ad agitarlo e cadde in un sonno profondo, al ritmo del cuore antico che sentiva battere vicino a lui.

E mai risveglio fu più dolce per Roberto. A destarlo furono il cinguettio degli uccelli e i tiepidi raggi di un sole nuovo. Era rimasto stretto al corpo della vecchia per tutta la notte e, al contrario di ciò che aveva temuto, non aveva sofferto il freddo, accanto al fuoco che ancora ardeva lì vicino. L’odore di fresca rugiada e di corteccia umida invase le sue narici, infondendogli una forza sconosciuta e inaspettata. La vecchia era già sveglia e, mentre lui scrutava i dintorni, lei lo osservava curiosa, come se aspettasse qualcosa dai suoi gesti e dal suo sguardo. Alla luce del sole non le sembrava più che appartenesse all’uomo perso che aveva addirittura rifiutato le sue carezze la sera precedente.

Lì intorno dormivano gli anziani, chi su giacigli di fortuna, chi sotto improvvisati ripari, attorcigliati a coperte annose, che sembravano essere tessute con l’amarezza del loro percorso. Colpi di tosse giungevano come portati da eco lontane. E lui per la prima volta in vita sua sentiva di avere una scelta, di poter decidere del suo destino che, adesso, non era più preordinato e finalmente non doveva rispondere a regole precise e rigide.

Si alzò e stirò le membra, accorgendosi che all’orizzonte di intravedeva una striscia di mare azzurro. Già si imbastiva l’eterno dialogo tra le onde e la miriade di gabbiani, che disegnavano voli festosi nei colori pastello dell’alba. Roberto provò un brivido intimo, profondo, e capì che adesso dipendeva solo da lui. Molti di quei vecchi si stavano svegliando e tutti lo guardavano come se gli stessero silenziosamente chiedendo un segnale, un impulso.

Si avvicinò al fuoco e lo ravvivò, poi staccò dal suo costato il cartellino nero e ve lo gettò. Le fiamme si levarono e sembravano anch’esse felici di annientare quel simbolo odioso. Uno dopo l’altro le donne e gli uomini dai capelli bianchi, dalla pelle rugosa e dal respiro affannoso si avvicinarono al fuoco e vi scaraventarono, chi con rabbia e chi con rassegnazione, il cartellino nero. Il crepitio delle lingue di fuoco sembrò un tripudio e, senza parlare, i vecchi raccolsero da terra le poche cose che continuavano ad essere importanti per loro, un indumento, una foto, qualche oggetto.

Tutti lo osservavano e Roberto vide nei loro occhi la fiera determinazione che tornava ad animarli. Porse il braccio alla vecchia addosso alla quale aveva trascorso la notte e si incamminò verso il tapis roulant che l’aveva trasportato fino a lì il giorno precedente. Il meccanismo adesso era fermo, programmato per muoversi in un’unica direzione, non ipotizzando che avrebbe potuto essere utilizzato addirittura per tornare.

E Roberto provava un’eccitazione nuova, il mondo stava per riscoprire i valori essenziali alla crescita del genere umano. Finiva lì il conto disumano che, per pareggiare, aveva avuto necessità di cancellare almeno una generazione. Lui ora sapeva che i giovani avrebbero compreso ciò che finora non avevano capito e cioè che senza gli anziani sarebbe sempre mancata l’altra metà dell’universo profondo che plasma i sentimenti umani.

Non c’era timore, ma solo voglia di tornare in quella folla che ordinatamente camminava ora, percorrendo a ritroso quel crudele percorso. Le loro figure colpite dalla forza del sole nascente erano più solide e ben definite, anche se lasciavano sulla terra umida ombre sempre più lunghe ed evanescenti.

                                                                                                                     Daniela Alibrandi

*  *  *

Questo racconto è stato pubblicato da un mensile della RAI, dal settimanale L’Ortica del Venerdì, inserito nell’antologia “Mezzaluna”, pubblicata da Veledicarta insieme ai racconti scelti dal cantautore Eugenio Finardi. Il racconto fa parte dell’antologia “I Doni della Mente”, tradotta nell’edizione inglese “Echoes of the soul”, disponibile ai seguenti link di Amazon e Kobo Mondadori.

https://www.kobo.com/it/it/ebook/i-doni-della-mente

https://www.amazon.it/DONI-DELLA-MENTE-Racconti-Pensieri/dp/1521363919

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LE NEWS

Buon San Valentino


ALLORA E’ COSI’ CHE CI SI INVECCHIA

Allora è così che si invecchia amore mio, e non l’avrei mai detto quando credevo che il rosso passionale avrebbe lasciato il posto a tenui colori pastello. C’è stato un tempo nel quale avrei giurato che il battito veloce del cuore si sarebbe tramutato in quello stanco di un volatile in caduta, che la rugiada sui petali di rosa null’altro sarebbe stata che lacrime di occhi anziani e stanchi, che un giorno di noi non sarebbe rimasto poi granché.

E invece no, ci si rende conto di invecchiare nella veloce vertigine che assale nel levarsi dal letto al mattino, nella fatica a salire le ripide scale, nell’affanno di una corsa che non è più facile come quelle che ricordavamo. Ma il resto no, amore mio dolcissimo. Il battito di quelle ali è sempre più veloce, la rugiada riflette ancora il tuo sorriso sensuale e vicino a te il rosso è sempre più luminoso e passionale. Ci si invecchia nel non stancarsi mai di stare insieme, nel desiderare la notte al ritmo dei nostri respiri, nel prenderci per mano ancora, seppure a volte tremeranno, e nel riuscire a udire solo le frasi d’amore che sgorgano sempre più belle e vive, anche se rischieranno di essere coperte dai sonori ronzii del nostro udito. Ci si invecchia pensando che dove andrai tu, verrò anch’io, sempre con te amore mio.

(Racconto inserito nella raccolta “I doni della mente”)

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