Una morte sola non basta
Recensione di Martino Ciano
È un libro duro quello che ci presenta la Alibrandi in cui narrativa, sociologia e storia si legano. Con sguardo critico, onnisciente e distaccato, l’autrice ci accompagna nelle complesse trame delle vite di Michela e Ilaria. Storie difficili da digerire, raccontate senza tralasciare i particolari. Ad entrambe le ragazze infatti sono state tolte le gioie dell’infanzia e dell’adolescenza. Il contesto storico in cui si svolgono le vicende delle due protagoniste è quello che va dagli anni cinquanta-settanta. Vent’anni in cui si succedono le speranze del boom economico e le disillusioni di un’emancipazione solo di facciata. A far da cornice al romanzo, Roma.
Ilaria e Michela. Prima bambine oltraggiate nella loro purezza, poi adolescenti che riversano i propri traumi in comportamenti ambigui e misteriosi. Ilaria e Michela. Distrutte non dai propri genitori, ma dai parenti stretti. Violenze domestiche e psicologiche, momenti raccontati con nitidezza come se l’autrice volesse distruggere in noi l’idea che in quegli anni tutto fosse casto, puro, eticamente perfetto. Il male invece è presente in ogni tempo. Cambiano le condizioni, gli accidenti, ma agisce sempre secondo le stesse modalità e anche le conseguenze sono le medesime. Gli unici elementi cangianti sono le contraddizioni e in quel periodo l’Italia ne stava vivendo parecchie.
L’emancipazione della donna, il cambio repentino dei costumi, la fine del mondo rurale e l’inizio del consumismo. La lotta di classe, il divorzio, la società dello spettacolo, i traumi della guerra, la povertà che lasciava spazio all’abbondanza. La stoltezza di un’Italia poco coesa e di una politica che ancora non era riuscita a fare gli italiani. In tutto questo trambusto si annida il male, gli orchi escono dalle fiabe e diventano umani. Maschi o femmine, non importa il loro sesso, essi si alimentano di contraddizioni.
La Alibrandi non ci racconta solo delle violenze che subiscono Ilaria e Michela, ma ci mostra gli stili di vita di due ceti sociali opposti. Quello borghese da cui proviene Ilaria e che si ammanta di perbenismo e di una rigida educazione conservatrice volta a contrastare l’avanzata dell’emancipazione; quello proletario di Michela in cui albergano la precarietà, l’ignoranza, l’essere-agiti-da, il malocchio. Eppure entrambi si completano a vicenda. L’uno si alimenta delle contraddizioni dell’altro. L’incastro è così perfetto che diventa chiaro fin dalle prime pagine, tant’è che alla fine le due protagoniste si incontrano e si annullano a vicenda in un finale impossibile da immaginare, ma che è la logica conseguenza delle contraddizioni vissute dalle due ragazze.
Un romanzo scritto in maniera impeccabile. Un’autrice interessante che induce a riflettere su temi trattati con troppa tragicità e poco spirito critico. La Alibrandi è una innovatrice, ma vi direi troppo e vi farei perdere il gusto di amare un libro che va letto e analizzato. In questo romanzo ci viene mostrata l’altra faccia della medaglia di un’Italia dimenticata e di un’epoca giudicata frettolosamente come il necessario passaggio verso la modernità. Invece…
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